Potresti illustrarci il tuo percorso professionale e i principali traguardi che hanno segnato la tua carriera?
Ho iniziato a lavorare in una società di software per la sanità nel 2000, in un momento storico in cui tutto ciò che era web (e il software in generale) era considerato avveniristico e circondato da un’aura di potenziale sviluppo infinito… Il nostro era comunque un mercato di nicchia, in un Paese in cui la sanità era soprattutto pubblica e in cui l’investimento in tecnologia per la sanità era inferiore al 2% dell’investimento complessivo in sanità… La società allora si chiamava Dianoema S.p.A. ed era composta da una quarantina di professionisti (tutti ingegneri, matematici e informatici) per cui io, che mi occupavo di Marketing e Comunicazione e sono laureata in Politica Economica ero un po’ la mosca bianca, la voce fuori dal coro, con un punto di vista differente. Ho iniziato occupandomi di Marketing e Comunicazione ma anche di gare d’appalto.
L’azienda è cresciuta, è diventata una multinazionale, nel 2006 si è quotata in borsa e nel farlo abbiamo affrontato anche l’enorme sfida di cambiare nome e marchio e quindi mettere a repentaglio la nostra riconoscibilità e il nostro posizionamento… NoemaLife S.p.A. era leader di mercato in Italia e in Europa nel settore dei sistemi informativi della gestione dei dati clinici e tale è rimasta.
Un’azienda con presenza globale è composta da team internazionali e le attività e strategie di Marketing e Comunicazione avevano anch’esse portata globale. Azienda sempre più grande, sfide sempre più complesse e diversificate e progetti di impatto/ soddisfazione sempre maggiore: a metà degli anni 2010 NoemaLife era composta da 700 persone, con attività e sedi in Europa, Medio Oriente e Sud America e io, in CdA da qualche tempo rivestivo il ruolo di Direttore Corporate Affairs and Communication.
Nel 2016, a 20 anni dalla fondazione, l’azienda è stata venduta al gruppo Dedalus passando immediatamente a 1300 fte in cui per qualche anno sono stata Direttore Pubblic Affairs e Chief of staff della sede USA.
Ho poi “saltato la barricata” e da fornitore della sanità mi sono occupata delle strategie di Marketing e Comunicazione di una Clinica privata.
Oggi lavoro come consulente e collaboro con il Family Office della mia famiglia.
Quelli che considero gli highlights della mia carriera forse sono poco convenzionali: il mio successo professionale è stato essere partecipe della crescita di un’azienda che da piccolina ha per così dire conquistato il mondo, avere costruito un marchio importante, avere contribuito a creare un’azienda con un clima invidiabile (tante volte chi è andato via è poi rientrato) e con valori importanti, aver fatto parte di una storia di successo che poi ho potuto esportare nelle altre esperienze professionali quotidiane.
Come donna in una posizione di leadership, quali sfide hai incontrato e come le hai affrontate?
La Sanità e la tecnologia sono sempre stati mondi “maschili”: l’azienda per cui lavoravo era un’eccezione perché oltre il 30% dei dipendenti era donna, ma il numero di Direttori Generali donna di aziende sanitarie in Italia si contava e si conta tutt’ora sulle dita di una mano.
Non si contano le volte in cui a congressi di tecnologici/ medici sono stata apostrofata come se fossi una hostess nonostante fossi il direttore degli affari istituzionali di una multinazionale che contava 1300 persone, presente in 20 paesi nel mondo…
Quindi le sfide che ho affrontato sono state mancanza di fiducia nelle mie competenze, stereotipi di genere (una discussione professionale etichettata come “litigio fra donne”), snobismo nei confronti della mia professione (i tecnologi e tecnocrati hanno sempre pensato che Marketing e Comunicazione ammontassero a scegliere i “colorini”).
Sfide superate con la preparazione - sempre – e con i fatti: dimostrando il valore del lavoro svolto, dell’importanza delle funzioni ricoperte e dei risultati ottenuti (economici e non solo). Accanto a elementi prettamente professionali e di business, la mia forza credo siano e siano state caratteristiche che forse sono persone, situazioni e sociali. Penso che essere la persona che crea in parole piuttosto che in stringhe di codice o cifre mi abbia offerto una visione olistica e più ricca delle aziende in cui ho lavorato.
Ma mi piace fare il regista, stare nell’ombra: non essere in primo piano ma restare dietro le quinte (il che, visto la mia professione può sembrare ossimorico).
Gestire team globali implica comprendere diverse sfumature culturali. Come hai fatto in modo che i tuoi team si sentissero inclusi e valorizzati?
I team internazionali sono sempre tricky: in parte per le differenze culturali che sono tante e decisamente rilevanti in parte per la lontananza fisica che fa sì – soprattutto prima della pandemia – che le persone si sentano sconnesse fra di loro e dal centro. Quello che noi facevamo era rimanere in contatto, comunicare e condividere idee e cercare di vederci il più possibile: quando di persona non era possibile, a volte tenevamo videochiamate (anzitempo, con skype) attive tutto il giorno, ciascun team portando avanti le proprie attività normali ma era come condividere un’open space, condividere e fare vedere cosa succedeva al centro…
A volte piccole cose, ma è sempre complesso.
Come ha influenzato il tuo approccio alla leadership e alla diversità il tuo continuo percorso di apprendimento, incluso il periodo alla Scuola di Palo Alto e alla SDA Bocconi?
Come ho detto la preparazione è sempre stata molto importante, non solo in settori specifici della mia professione, ma anche manageriale, lo sviluppo di soft – skills, percorsi di executive coaching, corsi di lingue straniere (tornando ai team internazionali è molto apprezzato è interessante e arricchisce le dinamiche) ma anche corsi tecnici.
Continuare a studiare, ad approfondire e ad aggiornarsi porta sicurezza e autorevolezza, consente di restare in movimento, presenti e “au courant”, è stato tutto importante: imparare a fare una telefonata senza sentire di doversi scusare, imparare a gestire un progetto e contabilizzarlo, imparare a gestire conflitti, imparare a ad accettare critiche e a farle…
Puoi raccontarci della tua esperienza come Business Angel. Quali settori o tipi di startup ti interessano maggiormente come investitrice e perché?
Probabilmente di questa esperienza amo l’aspetto “angel”, mi piace molto aiutare giovani a costruire i loro progetti, a dare loro una possibilità di provarci. Ma non mi dispiace affatto l’idea di averne un eventuale ritorno economico o di avere “capito” il vero genio imprenditoriale e creativo (ma questo servirebbe solo il mio ego).
Conosco meglio la tecnologia e l’healthcare ovviamente, ma mi piace investire in donne founders e in education per il principio e perché il mondo ha bisogno delle idee delle donne (anche quando non siamo brave a chiedere, a parlare in pubblico o siamo intimidite dalla spocchia di certi investitori) perché sono idee diverse, originate da punti di vista differenti e perché le donne lavorano bene.
C'è un messaggio o un pensiero finale che vorresti lasciare ai nostri lettori?
Come dicevo sono un po’ timida, non mi piace farmi notare ma preferisco osservare… I’m watching!