21 febbraio 2022

I primi anni di IAG raccontati da Enrico Castellano e Lorenzo Franchini



Enrico Castellano e Lorenzo Franchini sono tra i soci fondatori di Italian Angels for Growth insieme a Francesco Marini Clarelli, Luigi Amati, Marco Asquini, Luigi Capello, Andrea Mandel Mantello, Antonio Sfiligoj e Marco Villa. Quest’anno IAG festeggia 15 anni dalla sua nascita. Scopriamo di più sui successi e le difficoltà dei primi anni dell’associazione insieme ai protagonisti.

Lorenzo Franchini:

Angel investor e founder di ScaleIT Capital, hai investito in oltre 25 startup operanti in diversi settori e provenienti da Italia, Francia, Spagna, Regno Unito, Israele e Stati Uniti. Puoi raccontarci qualcosa in più sulla tua esperienza di investitore a livello internazionale?

Si può dire che nei molti investimenti fatti ne ho viste di tutti i colori. Ho prevalentemente investito in startup italiane, su team italiani basati all’estero o su società con team misto italiano internazionale, ma anche nei tre investimenti puramente internazionali ho visto founder capaci e focalizzati, che sono riusciti a portare a casa buone exit al momento in cui si è presentata l’opportunità, ma anche founder meno trasparenti con cui la collaborazione non ha avuto un lieto fine, o iniziative dove l’evoluzione della tecnologia ha messo fuori campo il business della startup. Esperienze simili a quelle fatte sugli investimenti in Italia. Dalla mia esperienza, investire a livello internazionale non garantisce di per sé migliori risultati rispetto a investire su startup nazionali. Il mantra per me rimane sempre lo stesso: trovare persone capaci anche di riconoscere l’errore velocemente e trovare la nuova giusta direzione, persone aperte al confronto capaci di crescere ed evolversi professionalmente, persone che scelgono compagni di viaggio migliori di loro stessi e non limitino la forza della startup al perimetro delle proprie competenze. Le persone di questo tipo con queste caratteristiche penso siano la chiave del successo. Persone come Francesco Baschieri o Alessandro Petazzi ed i suoi co-founder tanto per fare un paio di esempi di belle avventure finite bene.

Con ScaleIT mi sono esposto molto al mondo degli investitori internazionali. Penso sia importante riuscire a convincere investitori internazionali a investire nelle nostre startup. Possono portare tanta competenza, una cultura diversa e una visione internazionale con il network giusto per scalare a livello globale le startup dove abbiamo investito. Anche in questo caso però occorre sempre un’ottima valutazione preliminare, competenze o approcci sbagliati sono ovunque, anche all’estero.

Oltre ad essere co-fondatore di IAG, sei stato Managing Director dell’associazione fino al 2014. Come sono stati i primi anni di IAG?

Siamo stati una startup per le startup. Siamo partiti a fine 2007 e a settembre 2008 è arrivata la crisi finanziaria con il crack di Lehman Brothers. Il 15 settembre stavamo facendo proprio la nostra quarta riunione di presentazioni aziendali mentre la banca di investimento falliva. I soci quel giorno pensavano a tutto tranne le startup che presentavamo. È stata dura all’inizio. Ci abbiamo messo due anni a trovare un nuovo equilibrio. Ci mancava esperienza, massa critica di soci e il mercato venture all’esterno era totalmente immaturo. Siamo stati dei pionieri. Io andavo nelle università a parlare di angel investing e startup e gli studenti mi guardavano come un “marziano”, nelle loro aspirazioni professionali erano molto meglio le banche di investimento o la consulenza strategica. Il problema maggiore però all’inizio è stata la governance dell’Associazione. Non avevamo un Comitato Esecutivo ma solo un Consiglio Direttivo dove non era facile prendere le decisioni. C’erano conflitti e paura di prendere una direzione piuttosto che un’altra. Mi ricordo (e so che anche lui se le ricorda bene) le nostre discussioni con Francesco Marini Clarelli ai giardinetti di Piazzale Baracca di fronte al suo ufficio. Siamo arrivati sul punto di disgregarci come gruppo dirigente. Ne siamo usciti trovando una governance più efficace e mettendo da parte le diffidenze personali, trovando i giusti equilibri. Dal 2010 l’Associazione ha iniziato a crescere stabilmente come soci e investimenti ed è iniziata la fase di espansione.

Il ricordo più significativo?

Le fasi iniziali sono sicuramente quelle che mi sono rimaste più impresse nella memoria. Un momento molto importante, che ha creato molta coesione tra il gruppo che poi ha fondato l’associazione, è stato quando a Kansas City (durante il famoso viaggio di fondazione) presso la sede della Kauffman Foundation si è unito alla comitiva un rappresentante di un noto (e discusso) esponente politico che ha iniziato a filmare i vari interventi. C’è stata una sommossa popolare. Molti di noi sono andati a parlare ai diplomatici americani che organizzavano il viaggio chiedendo di tenere fuori la politica. Molti di noi si sentivano individui, professionisti e imprenditori, che erano lì per un interesse e iniziativa privata, anche se con potenziale forte impatto sociale. Questo è stato lo spirito che ci ha mosso a fondare IAG ed il collante che ci ha tenuto uniti nei primi anni difficili e che spero tenga unita l’Associazione in futuro.


L’opportunità persa?

Come tutti gli investitori di lungo corso ne abbiamo perse delle belle. Nel Workshop IAG del giugno del 2020 ho presentato le 5 opportunità più significative che abbiamo perso nei primi anni dell’Associazione. In quel momento Docebo valeva poco oltre 300M di $ ed era quotata alla Borsa di Toronto. Poi si è quotata anche al Nasdaq e oggi vale oltre 2,3B ed ha raggiunto punte di 3,8 B. Claudio Erba venne a presentarci l’opportunità nel 2010, cercava 500k e la pre money era 2 mil €…che dire…ogni tanto quando ci ripenso… da noi raccolse commitment solo da tre soci, tra i quali Antonio Leone… che era lo sponsor che la presentò. Ipotizzando un home run i soci IAG avrebbero potuto fare circa un x1000, con 10k ti portavi a casa 10 mil… Antonio aveva messo commitment per 30k… La maggior parte dei commenti di chi decise di non scommettere su Claudio e la sua scaleup dicevano che il mercato era già presidiato ed il business poco scalabile. Ci siamo persi secondo me due elementi fondamentali che determinano il successo di molte venture. Un elemento potevamo capirlo già nel 2010, l’altro no. Il primo era la capacità di execution di Claudio e del suo team. Senza funding significativo erano già stati in grado di far crescere la società a livello internazionale con una sede a Dubai e avevano già un portfolio clienti significativo con quasi un milione di fatturato. L’altro era più difficile da capire a quel tempo ed è sempre difficile capirlo. La capacità di crescere professionalmente del founder e di creare un team eccellente attorno a lui.

Enrico Castellano:

Enrico tu vanti una lunga esperienza in Accenture, sei stato uno dei Partner che hanno sviluppato la società di consulenza globale, tecnologia e outsourcing in Italia, nonché promotore dell'innovazione e del talento in Italia. Come ti sei avvicinato all’ecosistema startup?

Da sempre ho condiviso i valori che in Accenture in un certo senso anticipavano quelli della società della conoscenza in cui ormai siamo immersi, in particolare l’attenzione allo sviluppo del talento dei giovani e la valorizzazione dell’innovazione tecnologica per migliorare le performance di business. Devo però dire che Accenture solo recentemente è diventata pienamente un attore dell’ecosistema, sia con sempre più numerose iniziative di Corporate Venture Capital e di acquisizione di startup, sia soprattutto con il contributo alla trasformazione digitale dei suoi Clienti. Il mio avvicinamento vero all’ecosistema è dunque avvenuto solo dopo aver concluso la mia carriera, e in modo del tutto casuale. L’Associazione Alumni Accenture aveva pubblicato un libro bianco sull’innovazione a seguito del quale erano nati contatti col programma Partnership for Growth dell'Ambasciata USA in Italia. Quando l’Ambasciata organizzò il famoso viaggio di studio del settembre 2007, decisi di partecipare, sicuramente interessato dall’esperienza, ma con le idee ben poco chiare su cosa vi avrei trovato, e anche per approfittare dell’opportunità, visto che nessun altro nell’Associazione Alumni era disponibile.

Dopo aver conosciuto l'approccio dei Business Angel americani, alla fine del 2007 sei stato uno dei 9 co-fondatori di IAG. Come è stato essere i pionieri in questo tipo di attività nel nostro Paese? Quali sono state le principali difficoltà?

È sicuramente stata un’avventura estremamente stimolante, e anche divertente. Ci sono state sfide da superare, a partire dai problemi di crescita iniziali e dal problema di finanziare un’associazione quando i costi fissi non vedevano volumi ancora capaci di assorbirli, ma non penso si possa definirle difficoltà. In ogni caso, si è trattato di impegni e sforzi sicuramente più che compensati dai grandi benefici di un’esperienza che, per usare la definizione di Francesco Marini Clarelli, è “finanziariamente attraente, professionalmente stimolante e personalmente divertente”. Volendo “pesare” questi tre aspetti, ne invertirei sicuramente l’ordine, anche per l’esperienza di decine di investimenti fatti. Quello che comunque rimane è la soddisfazione per la qualità del “viaggio”, qualità che deriva soprattutto da quella dei compagni di viaggio: dopo aver avuto una simile opportunità in Accenture, in IAG, anche dopo la fine della mia carriera, ho potuto continuare a beneficiare degli stimoli professionali e del divertimento che derivano dalla possibilità di frequentare persone di valore.

Ricordi il primo investimento fatto con i soci IAG?

Sì, certo: si trattava di una tecnologia a supporto della security, che permetteva una gestione efficace delle password che ognuno di noi deve gestire in numero sempre maggiore. Un investimento esaminato nella prima Riunione Soci di IAG e che chiudemmo nel maggio 2008. La startup si rivelò abbastanza presto senza prospettive e sopravvisse per molti anni precariamente (mi sembra la definizione di questa tipologia di sopravvivenza sia “zombie”), per arrivare poi a un processo di vendita, negoziazione con i founders e liquidazione durato più di 2 anni. Finalmente, a inizio 2016 i soci IAG sono riusciti a recuperare poco più del 50% dell’investimento, solo grazie allo straordinario impegno, fatto al tempo stesso di tenacia e pazienza, del Champion Andrea Parmeggiani. Penso che la mia mail ad Andrea, che ho trovato nei miei archivi, possa ben sintetizzare la mia valutazione su un investimento che sicuramente ci ha insegnato molto: “Grazie Andrea, se devo valutare in estrema sintesi questo nostro primo investimento (fatto quando eravamo, almeno io, più fiduciosi e “spensierati”) posso dire che abbiamo decisamente sbagliato nello scegliere l’imprenditore, ma abbiamo assolutamente azzeccato la scelta del Champion!”.

Un aneddoto sulla nascita dell’associazione?

In particolare, su quello che mi rivelò il viaggio iniziale negli USA. A Milwaukee e Kansas City, quello che mi colpì maggiormente fu il radicamento locale, direi popolare, dell’attività dei Business Angels: l’aria che ad esempio si respirava negli incontri con Tim Keane e i suoi Golden Angels mi è sembrata molto simile a quella che in Italia possiamo respirare in una riunione della Pro Loco di una città di provincia. Un ambiente dove, al di là degli aspetti tecnici ed economici, emergeva con grande forza la motivazione di “give back” verso la comunità locale dove gli angels avevano potuto realizzare il loro successo professionale ed economico. In particolare, ricordo un anziano ex commerciante di origine ebrea, mi sembra di ricordare si chiamasse George Kosher, che, dopo aver lasciato parte del suo patrimonio a figli e nipoti, si ostinava a finanziare tutti i progetti che venivano presentati, progetti che seguiva con grande attenzione e rigore, annotando manualmente su un’agenda tutte le transazioni. Credo che questo aspetto dell’angel investing sia molto importante per un Paese come il nostro, dove, nonostante i progressi degli ultimi anni, gli investimenti in startup mostrano un grave ritardo rispetto ai principali Paesi nostri concorrenti, ma dove al tempo stesso esistono numerosi territori che per imprenditorialità e diffusione della ricchezza e del risparmio non hanno nulla da invidiare a questi Paesi.