Con una solida formazione accademica e una lunga carriera nella consulenza manageriale presso KPMG e McKinsey, Cristina si distingue per la sua competenza in pianificazione strategica, controllo di gestione e sviluppo di sistemi organizzativi, applicati a settori diversificati. Dottore commercialista e revisore contabile, Cristina è mossa da una profonda passione per i numeri e per il valore sociale delle "buone cause". Oltre alla sua carriera professionale, è stata atleta di Serie A2 nella pallavolo. Conosciamola meglio.
La tua carriera attraversa diversi settori, dal profit al non-profit. Quali sono stati i momenti chiave che hanno contribuito alla tua crescita professionale e alla tua visione attuale?
Innanzitutto, la presenza di “maestri”. Per primi i miei genitori che mi hanno sempre incoraggiata ad avere spirito libero e critico; poi a Roma in KPMG e a Milano in McKinsey ho trovato persone davvero speciali che mi hanno fatto da “mentor” nella mia carriera, iniziata a 22 anni, appena laureata.
Momenti chiave ne ricordo tanti: il trasferimento a Roma a 23 anni, il passaggio dalla revisione contabile alla consulenza, la proposta di McKinsey, che per me era il top del management consultant, il mio presentami come “stagista” in Telethon nel 2003.
Cosa ti ha spinto a dedicarti al mondo delle organizzazioni non-profit e alla consulenza per enti del settore? Quali valori o principi ti hanno guidato in questo percorso?
Mi ero già appassionata all’inizio degli anni ‘90 al mondo delle organizzazioni no-profit, in particolare mi era capitato di imbattermi in Telethon, perché KPMG aveva partecipato ad una delle prime edizioni della maratona televisiva.
Nel 2003, dopo aver fatto un corso per manager di aziende no-profit (allora si chiamava così il terzo settore), mi sono “reinventata”, proponendomi come stagista in Telethon.
Avevo voglia di mettere a frutto la mia esperienza in settori allora “inesplorati” dalla consulenza, dove il profitto non fosse la leva principale e mi rendevo conto dell’esigenza di un approccio manageriale e tecnico su tanti temi. Il mio obiettivo era ed è “restituire” …
In questo lungo percorso nel mondo del terzo settore ho incontrato tante persone “belle” e generose, mi sono appassionata al “purpose” di tante organizzazioni, ho trovato ovunque “maestri” e collaborato con “allievi” che oggi ricoprono ruoli importanti.
In AIL Bologna, Associazione Italiana contro le Leucemie, Linfomi e Mieloma, ad esempio, ho avuto un “maestro” fantastico, il Presidente, professor Sante Tura di Bologna, uno dei padri dell’ematologia italiana. Il mio primo giorno di lavoro come direttrice, invece di parlare di numeri e strategie di raccolta, mi ha consegnato il libro di testo dell’esame di Ematologia per gli studenti di Medicina, mi ha spiegato in termini scientifici, ma estremamente comprensibili, le frontiere della ricerca per la cura delle malattie ematologiche, e mi ha portato a fare il giro dei reparti e dei laboratori di ricerca. Quale miglior modo per dare un “senso” ad un lavoro?
Come è maturata la decisione di diventare business angel e di unirti a IAG? Cosa ti affascina maggiormente di questo ruolo e dell’associazione?
Mi sono lasciata “contagiare” da mio marito Marco Becca, che è business Angel dal 2012. Trovo tante similitudini con il mondo del terzo settore, sono ammirata dall’organizzazione di IAG, dove i giovani hanno un ruolo di rilievo e tante persone di grande esperienza si mettono al “servizio” della missione. Trovo sempre stimolanti le riunioni, vorrei avere più tempo da dedicare, ma per il momento mi accontento…
Quando valuti un investimento, quali caratteristiche cerchi nei fondatori o nei team in termini di leadership inclusiva e di rispetto della diversità?
Quando valuto un investimento per prima cosa mi appassiono al tema, al problema alla base della start-up: ricerco un’idea che possa avere “impatto” nel rendere il mondo un posto migliore. Ad esempio, sono sempre molto incuriosita dalle nuove frontiere della scienza medica, dai temi legati all’education e dalle idee per migliorare l’ambiente.
Nei founders apprezzo particolarmente la passione, la creatività e la competenza; cerco sempre di intravedere nei loro occhi una “visione” per un mondo diverso.
Come credi che diversity & inclusion evolveranno nei prossimi anni, sia nel settore non-profit sia nelle start-up a impatto sociale? Quali sfide e opportunità intravedi?
Devo confessare che, in questo momento, vedendo la tendenza di molti paesi del Mondo compresa l’Italia, non sono molto ottimista…questo è quello che credo oggi. Diverso è quello che spero.
Spero tanto nell'avanzata delle nuove generazioni, delle organizzazioni della società civile e in particolare nel terzo settore per avere una forza controbilanciante. In questo momento mi sto occupando, tra le altre cose, di evoluzione dei sistemi di welfare, dove un patto tra generazioni potrebbe modificare sensibilmente gli scenari.
Credo molto nel ruolo dell’educazione, penso che il sistema scolastico, in particolare italiano, vada riformato profondamente. Sono molto affascinata dall’esempio di don Milani, che nell’Italia degli anni ‘50 vedeva la scuola come luogo di emancipazione culturale e sociale, pensata per combattere le disuguaglianze.
Oggi ci sono “nuove” e vecchie disuguaglianze da combattere, abbiamo bisogno di “rifondare” il nostro modo di essere cittadini “consapevoli” e “solidali”, partendo dalla scuola e dalla società civile.
Il tuo background come atleta di Serie A ti ha trasmesso uno spirito competitivo e una forte disciplina. In che modo queste esperienze sportive hanno influenzato il tuo approccio alla leadership e al supporto delle imprese?
Sono, effettivamente, una persona un po’ competitiva nello sport, anche se oggi pratico solo yoga e meditazione, discipline basate sull’equilibrio corpo/mente.
Quando giocavo a pallavolo a livello agonistico ero davvero molto giovane. Ho sperimentato anche in quel campo l’importanza dei “maestri” e la ricetta della diversità per il successo di una squadra. Giocavo con atlete più grandi di me, alcune straniere, alcune già mamme. La bellezza del gruppo stava in questa mescolanza di storie e di generazioni e nell’aiuto reciproco. In campo eravamo una “cosa sola”. Un’istituzione della nostra squadra era il custode della palestra, iraniano, ingegnere, che ci ammaliava con i suoi racconti del suo Paese e con la sua sconfinata cultura…
Se tu avessi un “superpotere” da business angel, cosa faresti per rendere l’Italia un paese più inclusivo e aperto all’impatto sociale?
L’Italia è un Paese con un’alta propensione al risparmio, in particolare in alcune generazioni “senior”. Vorrei la “bacchetta magica” per toccare il cuore di tante persone e renderle sensibili all’importanza di un patto tra generazioni.
Investire in start-up innovative è un esempio di messa in pratica di questo “patto”.